Donne, lavoro e sfide demografiche: una ricerca che raccoglie e compara modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità.

Esiste un nesso positivo tra employability femminile e scelte genitoriali. È figlio di una cultura aziendale in grado di agevolare le scelte delle madri e dei padri. Lo studio realizzato da Fondazione Gi Group e Gi Group Holding in collaborazione con Valore D, ricostruisce attraverso numeri e analisi dove si annida la disparità e dove invece si possono coltivare buone pratiche.

 

Il lavoro come acceleratore di parità. Di genere, innanzitutto, e di possibilità. Lo studio Donne, lavoro e sfide demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità è un impegno alla condivisione del nesso positivo che esiste tra occupazione femminile e natalità, in nome di un’idea del lavoro che sia distante da un’obiezione a priori alla genitorialità e diventi invece un motore in grado di assecondare e agevolare le scelte delle madri e dei padri.

Pubblicato un anno fa a maggio da Fondazione Gi Group e Gi Group Holding in collaborazione con Valore D, realizzato con l’ausilio di esperti e analisti e i dati dell’Osservatorio sul lavoro sostenibile, è uno strumento utile oggi a leggere gli ultimi report sui tassi di occupazione femminile e a costruire una strategia in cui anche le aziende possano contribuire al cambiamento.

 

Qui Italia: ecco dove si annida la disparità.

Il rendiconto di genere relativo al 2024 presentato dal Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps a febbraio è uno tra i più recenti documenti in grado di ricostruire dove si annida la disparità in Italia.

Nel 2023 le donne diplomate e laureate hanno superato i diplomati e i laureati in tutti i corsi di studio rispettivamente con il 52,6% e il 59,9% sul totale di diplomi e lauree conseguite, ma nel mondo del lavoro il quadro cambia: il 52,5% delle donne è occupata a fronte del 70,4% degli uomini e nel 2023 le assunzioni per il genere femminile si fermano al 42,3% sul totale. Gli stipendi delle donne sono inferiori di oltre 20 punti percentuali: nelle attività professionali scientifiche e tecniche le donne percepiscono mediamente il 35,1% in meno. Soltanto il 21,1% delle donne ha contratti da dirigente contro il 78,9% dei colleghi uomini. Infine, il welfare: sebbene si sia registrato un incremento dei posti disponibili negli asili nido, oggi l’offerta soddisfa soltanto una parte limitata delle richieste. Al momento dell’analisi dell’Inps, soltanto l’Umbria, l’Emilia Romagna e la Valle d’Aosta hanno superato l’obiettivo dei 45 posti nido per 100 bambini da 0 a 2 anni. E i dati sui congedi parentali confermano che il carico non pesa in modo equo: le donne nel 2023 hanno utilizzato 14,4 milioni di giornate di congedo, gli uomini appena 2,1.

Altri numeri sono contenuti nel Rapporto Cnel-Istat sull’occupazione femminile, un volume curato da Cristina Freguja, Maria Clelia Romano e Linda Laura Sabbadini, presentato a Roma il 6 marzo. Nel terzo trimestre 2024, rispetto allo stesso periodo del 2008, il tasso di occupazione femminile è di 6,4 punti superiore, ma resta ampio il divario con l’Europa: il valore è inferiore di 12,6 punti alla media europea, rimanendo il più basso tra i 27 paesi dell’Unione. Anche il gap di genere del tasso di occupazione è quasi doppio rispetto alla media europea (17,4 punti contro 9,1 punti). A incidere è l’instabilità: quasi un quarto delle donne che lavorano – quasi 2,5 milioni – in Italia presenta elementi di vulnerabilità, contro il 13,8% gli uomini e il 4% è dipendente a termine o collaboratore o in part time involontario. Le più vulnerabili sono le lavoratrici giovani, residenti al Sud, con bassa istruzione e background migratorio. Nella suddivisione per settori professionali, oltre al settore agricolo, dove la vulnerabilità coinvolge il 37% dei lavoratori, spiccano il settore alberghiero e della ristorazione (41,2%) e quello dei servizi alle famiglie (36,8%).

Il carico familiare continua a rappresentare per molte un motivo di rinuncia all’attività lavorativa, soprattutto in presenza di bambini in età prescolare: tra i 25 e i 34 anni, meno della metà delle madri risulta occupata, a fronte di oltre il 60% nella fascia tra i 35 e i 54 anni. Nella fascia tra 25 e 54 anni, il tasso di occupazione degli uomini senza figli è del 77,3%, 8,6 punti percentuali in più rispetto alle donne (68,7%). La differenza è di circa 30 punti percentuali quando i genitori hanno figli minori (rispettivamente 91,5 e 61,6%).

 

I Paesi europei da cui dovremmo imparare.

Come si cambia la realtà? Innanzitutto, andando a vedere dove le cose funzionano. Lo studio di Fondazione Gi Group, realizzato in collaborazione con Valore D, grazie a una ricerca di tipo comparato, offre un’analisi sui Paesi in cui i modelli culturali riescono a garantire maggiore parità fra donne e uomini, mettendo in luce a partire dagli anni 2000 una correlazione positiva tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità totale. I sei paesi considerati nello studio sono Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna e Svezia, scelti poiché rappresentativi all’interno dell’Unione Europea dei casi più virtuosi e meno virtuosi rispetto a dati demografici e occupazionali nonché paesi che complessivamente generano oltre la metà della ricchezza dell’Unione (il 68% del Pil dell’Ue27).

 

Ecco che cosa emerge dallo studio pubblicato a maggio 2024. Il tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 49 anni (fascia d’età in cui tendenzialmente si entra nel mercato del lavoro, ci si stabilizza e si può creare la propria famiglia) supera l’80% tra i principali Paesi centro-nordeuropei (80,5% in Germania, 83,7% nei Paesi Bassi, 82,9% in Svezia) e il gap con i tassi di occupazione maschili è al di sotto dei 10 punti percentuali (- 8,7 punti in Germania, – 7,1 nei Paesi Bassi, – 6,1 in Svezia).

La Svezia si distingue per la più rapida emancipazione dei giovani (in media escono da casa a 21,4 anni) e il più basso gender pay gap nel settore privato. La presenza di coppie in cui entrambi i partner contribuiscono al sostentamento familiare trova la massima diffusione in Svezia, Paesi Bassi, Francia e Germania, con un’incidenza che supera il 69%. Proprio la Germania è, insieme alla Svezia, l’unico paese tra quelli di riferimento a investire almeno il 50% della spesa pubblica in servizi, mentre l’Italia (15,4%) risulta quello con la quota più bassa, privilegiando invece politiche di sussidi economici periodici.

Con riferimento alla situazione del 2022, guardando ai congedi per i genitori, la Francia risulta il paese con la più ampia durata complessiva di congedi (73 settimane in totale di cui 42 riservate alle madri e 31 ai padri), mentre i Paesi Bassi si distinguono per la limitatezza (21 settimane complessive di cui 16 riservate alla madre e e sei al padre). Quanto alla remunerazione, soltanto Germania (per 14 settimane), Paesi Bassi (per 16 settimane) e Spagna (per 16 settimane) riconoscono alla madre un congedo retribuito al 100%.

Germania e Svezia sono gli unici in cui l’integrazione tra servizi e congedi permette una copertura a sostegno della gestione dei figli da 0 anni fino al loro ingresso nella scuola primaria. Oltre a un congedo ben pagato (almeno 80%) di almeno un anno dopo la nascita del figlio (16,5 mesi in Germania, 13 mesi in Svezia), già dal primo anno di vita l’accesso ai servizi di educazione e cura di prima infanzia è riconosciuto come un diritto legale, con posto garantito (in Svezia è anche gratuito dai 3 anni), con la sostanziale copertura fino all’inizio della scuola primaria. Viceversa, analizzando il periodo 0-6 anni, la combinazione di congedi e servizi per l’infanzia presenta un gap di ben 65,5 mesi in Italia, di 56 mesi nei Paesi Bassi, di 30,75 mesi in Francia, di 28 mesi in Spagna.

 

Come invertire la rotta.

Oltre ai rapporti e ai dati da fonti istituzionali, l’analisi si avvale di una serie di interviste, tavoli di lavoro e survey, coinvolgendo aziende di grandi dimensioni a carattere multinazionale e aziende di piccole e medie dimensioni operanti in Italia. Ne emerge la consapevolezza che tutti possono giocare un ruolo chiave, in particolare le istituzioni ma anche le aziende, nella costruzione di esempi positivi per rendere il binomio donne e lavoro più produttivo ed equo.

L’attivazione di un processo virtuoso di trasformazione in grado di creare le condizioni per supportare (a favore di chi lo desidera) la scelta di lavorare e avere figli chiama in causa organizzazioni e istituzioni. Gli interventi più efficaci per sostenere occupazione e natalità si poggiano su tre pilastri.

Innanzitutto, il coinvolgimento dei giovani in un mercato del lavoro dinamico e aperto, attento allo sviluppo del benessere e in dialogo con il sistema educativo. A fronte di un’autonomia economica e una maggiore fiducia verso il futuro, il desiderio di genitorialità potrebbe diventare una scelta agita.

Il secondo ambito su cui lavorare è il sostegno alla cura dei figli e alla conciliazione dei tempi di vita personale, familiare e professionale: servono servizi educativi e di cura di qualità e accessibili in termini di costi, congedi di maternità, paternità e parentali, flessibilità, welfare aziendale e servizi di supporto psicologico e di coaching ai genitori, più permessi per visite mediche, inserimento al nido e malattia.

Infine, il cambio culturale, che si costruisce attraverso percorsi di empowerment femminile, il superamento di bias e stereotipi di genere, il supporto per una maggior condivisione dei carichi di cura, gli incentivi alle aziende impegnate per la parità di genere. Nelle organizzazioni cresce dove si investe nell’inclusione, nel superamento della cultura del presenzialismo, attraverso interventi per promuovere la condivisione del lavoro di cura, l’accompagnamento dei responsabili verso il cambiamento per sviluppare un mindset capace di abbandonare pregiudizi e adottare nuovi approcci.

Scarica lo studio completo

 

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